Intervista di Tommy Salsero e di alcuni giornalisti realizzata durante il Simposio salsa di Madrid il 23 Marzo 2008
Intervista a Frankie Martinez – Madrid 23/03/08
a cura della redazione de LaSalsaVive
Mio padre era molto coinvolto con la musica.
I miei genitori divorziarono quando avevo cinque anni, nel 1980.
Quindi lui era separato e mi veniva a prendere insieme a mia sorella nel weekend e ci faceva ascoltare musica latina, di diversi tipi.
Ci raccontava sempre delle varie orchestre, dei musicisti, dei vari concerti degli anni settanta che aveva visto e fu così che incominciai ad imparare e a collezionare musica. Noi all’epoca ballavamo ma era una cosa fatta in famiglia, niente di formale.
A 19 anni entrai all’accademia militare degli Stati Uniti ed ebbi modo di incontrare di nuovo mio padre che si era trasferito in Florida.
In quel periodo iniziai a frequentare i primi club nonostante non avessi ancora l’età per entrare ma, dimostrando più anni di quelli che avevo, non mi controllavono la carta d’identità e mi facevano passare.
Fu così che vidi i primi ballerini che provenivano dalle scuole di ballo.
Fino a quel momento non credevo che il ballo potesse essere così formale, anche perchè io avevo sempre ballato in famiglia come modo per rilassarmi.
Così a 19 anni iniziai a prendere le prime lezioni di ballo.
Ma la musica l’ho sempre sentita vicino a me.
Perchè hai iniziato a ballare lo stile di New York anzichè quello di Portorico?
E’ parte del mio modo di vedere le cose ed è anche una filosofia di vita che ho iniziato a portare avanti con il karate formale, quello tradizionale giapponese quando avevo 17 anni.
La mia filosofia era vicina al Buddismo.
Mi piaceva l’idea di unire la malizia di New York con il sabor di Portorico, nonostante fossero due generi molto diversi.
Con malizia non intendo qualcosa di negativo ma un modo di porsi tipico dei quartieri (barrios) di New York, mentre il sabor di Portorico era molto gioioso (gozon) e legato alla tradizione.
Mi piacevano entrambe le cose.
La mia personalità era stata plasmata da un’arte molto aggressiva e competitiva (ndr: il karate) e la malizia mi ha sempre attratto; per questo ho cercato di unire le radici che avevo imparato da mio padre quando mi raccontava la storia della musica di Portorico con quello che stavo facendo a New York e che era un po’ diverso.
Grazie a questo iniziai a sviluppare la mia personalità ed il modo di esprimere il mio corpo, anche perchè come sapete non sono nè forte nè alto e mi serviva una maniera per compiere questi movimenti e che mi permettesse di esprimere quel che avevo dentro, quasi come fosse una terapia.
Un po’ come avvenne con la break dance, che era una forma per esprimere la propria rabbia, la furia che i giovani avevano dentro…
Esattamente.
Frankie, chi sono stati i tuoi ballerini di riferimento a New York e a Portorico, anche fra quelli del passato?
All’inizio ammiravo molto Anibal Vasquez che ballava con Roberto Roena.
Credo che fosse suo zio.
Lui ballava anche con Mike Ramos. Differentemente da Roberto Roena, lui aveva un movimento più morbido e più specifico.
Io mi incantavo a guardarlo.
Quando lui morì, facemmo un tributo al Palladium di Los Angeles, con la compagnia di ballo di Eddie Torres di cui facevo parte.
Sua figlia era presente e per me era un grande onore essere lì presente, perchè per me fu lui ad iniziare a ballare con quello stile di Portorico così sciolto e gioioso.
Lui mi piaceva molto.
Altri personaggi che mi hanno ispirato sono Bruce Lee, Nureyev, John Coltrane, Jimi Hendrix.
Tutti personaggi di grande livello che hanno avuto un grande seguito fra le persone che cercavano sempre di imitarli e di raggiungere il loro livello, e che nonostante abbiano avuto una vita breve, hanno lasciato un segno in poco tempo.
Questa cosa mi motiva molto.
Mi affascina la regola della musica, di come un musicista può creare una cosa così intrigante e sofisticata.
Per me i musicisti sono come gli uomini di chiesa.
Hanno il potere di toccare le emozioni delle persone in un modo unico.
Ed io volevo fare lo stesso, riuscire ad emozionare le persone nello stesso modo con quella che era la mia musica, ed il mio strumento era il mio corpo.
Volevo arrivare dove stava arrivando la musica.
É un’energia, un potere che mi impressiona molto e che voglio avere, che sto cercando.
Parlando del tuo spettacolo, come tu hai detto, i tuoi ballerini sono come le tue dita, le tue braccia, e si nota che i loro movimenti sono gli stessi che fai tu.
Come hai raggiunto questo traguardo?
É una cosa che si è verificata con molti dei ballerini con i quali ho iniziato.Viviamo uniti ma è qualcosa che va oltre l’amicizia e la collaborazione, io credo che loro credono nella mia abilità di risolvere ogni loro dubbio e che quando ci confrontiamo sono sicuri che io non sbaglierò e saprò dar loro una risposta.
Sanno che è un lavoro di qualità e che stanno vivendo il loro sogno e che mi stanno aiutando a far emergere il mio sogno, le idee che io ho, che vedo quando ascolto musica.
Loro me lo insegnano dal vivo, io sono il loro primo fan.
Continuo a dir loro di ripetere di nuovo un numero perchè mi piace vederli e perchè mi stanno insegnando quelle che erano idee che fino a quel momento avevo in testa e che sentivo nel mio cuore.
Questa combinazione, ovvero, la fede che hanno verso di me e l’amore che io provo per loro, si trasforma in una sinergia che traspare nella scena.
Proviamo tantissimo ed io gli insegno che c’è sempre qualcosa da imparare.
Quando non sono vicino a quel che vorrei fare e cambio qualcosa loro mi vengono subito dietro.
Sono cose che necessitano di molto lavoro, che richiedono uno sviluppo specifico ma che alla fine possono trasformare i loro sogni (ndr: dei ballerini) in realtà.
E’ una cosa molto forte, c’è amore ma ci sono anche persone che ti aiutano a realizzare i tuoi sogni.
Che ne pensi della vita salsera spagnola rispetto a quella di altri paesi?
La verità è che fino a poco tempo fa io non sapevo che la salsa era così forte al di fuori degli Stati Uniti.
Arrivando qui mi sono reso conto di quante persone si muovano da altri paesi, ad es. dalla Germania.
In primo luogo è davvero impressionante la quantità di gente che è venuta, però con gli anni la qualità, la dedizione, l’amore con il quale abbiamo iniziato ad insegnare hanno avvicinato tante persone a questo ballo e le hanno fatte crescere.
Mi capita spesso di vedere persone che vengono nella mia accademia di New York e che restano a studiare per un mese e poi se ne vanno.
Gli metto a posto la coreografia, tornano a casa e fanno degli spettacoli.
C’è molto amore qui.
Ho detto ai miei ballerini di non preoccuparsi perchè qui siamo come a casa nostra.
Le persone sono venute qui per vederci e non per criticarci.
Non c’è questo spirito.
Per questo ci sentiamo a nostro agio quando veniamo qui, nonostante per noi ogni volta è una sofferenza, perchè si soffre sempre.
Nella danza contemporanea la musica che viene utilizzata di solito non è così ricca di informazioni come quella che utilizziamo noi e che richiede molte prove, però la gente lo apprezza e noi lo sentiamo.
Non servono parole per capire l’apprezzamento del pubblico nel condividere il nostro spettacolo.
Ci sono pochi posti nel mondo dove ho sentito una partecipazione così forte e condivisa.
Puoi parlarci delle tre parti del tuo nuovo spettacolo che è come un musical?
Noi abbiamo realizzato un formato composto da tre parti di mezz’ora l’una.
Ogni parte non è connessa in alcun modo con le altre.
Ogni parte di mezz’ora è un pezzo di arte che vive autonomamente.
In questo modo possiamo alternare i vari pezzi a seconda della serata e della durata dello show.
Esattamente come fanno adesso a New York alcune famose compagnie di ballet come quella di Alvin Ailey, Paul Taylor che sono ballet contemporanei.
Questo è il loro formato attuale.
Ed io volevo coinvolgere le persone abituate a questo tipo di spettacolo artistico e non solo le persone che erano già coinvolte con la musica ed il ballo.
Volevo comunicare al pubblico che questa è un’arte di alta qualità e che Portorico, Cuba e tutti i paesi caraibici hanno una propria arte come il Flamenco in Spagna.
Invece di presentare le solite cose classiche che si vedono di solito, ho preferito far conoscere qualcosa di più tradizionale e legato alla cultura dei nostri paesi però con un elevato tasso tecnico.
E questo è il pubblico che volevamo coinvolgere, al fine di insegnargli quello che stiamo facendo qui.
Il prossimo giugno faremo uno spettacolo a New York per tre serate, dove faremo 4 show di cui uno che faremo il sabato pomeriggio che sarà diverso dagli altri per chi vuol vederne più di uno.
Il nostro progetto è quello di fare un pezzo nuovo di mezz’ora ogni anno, mostrandolo assieme ad altri due precedenti.
L’idea è quella di lasciare qualcosa per le prossime generazioni della compagnia affinchè i giovani che verranno potranno incominciare da queste basi e svilupparle mantenendo un solco con la tradizione.
In questo modo quando saremo stanchi di ballare e vorremo stare dietro le quinte, seduti su una sedia, altri coreografi potranno interpretare queste parti e continuare con la nostra tradizione.
Un po’ come accade con la Monnalisa che è stata disegnata da tanti artisti ognuno con un proprio stile o un pezzo di jazz che ogni musicista può interpretare in modo diverso.
In questo modo daremo la possibilità ai nuovi ballerini di continuare con la tradizione.
Una parte dello spettacolo richiama la tradizione della bomba di Portorico
Si, si…
Però è una bomba con un collegamento alla danza contemporanea
Esatto.
E la musica parlava di afro…
Si.
Che importanza ha per te l’afro?
L’afro rappresenta le fondamenta di tutti i balli che arrivano dai caraibi.
A noi interessa molto la musica ed il ballo che arrivano da Haiti, dalla Repubblica Dominicana, da tutti i caraibi, dalla Martinica, dai caraibi francesi perchè anche li ci sono molti africani.
Ci interessa tutto questo perchè è da lì che sono nate le tradizioni folcloriche di queste isole.
Quello che io voglio insegnare è che questa musica si può rappresentare in una forma libera.
Cerco di far comprendere il modo di sentire le tradizioni anche se il ballo è qualcosa che trascende questo contenitore di cose formali.
Ad esempio le arti marziali vengono insegnate in maniera formale, senza considerare l’aspetto personale.
I maestri insegnano la tecnica in maniera uguale e come dei robot producono arte marziale.
Invece io vorrei che ogni allievo cercasse di trovare la propria interpretazione, la propria espressione.
Vorrei fargli capire che la musica ed i musicisti suonano senza vincoli, sono liberi.
Prendono una bomba e cercano di mischiarla con qualcos’altro in modo da esprimere le proprie idee in maniera diversa.
Anche io con il mio corpo cerco di fare questo, ovvero di interpretare quello che sto ascoltando trasformandolo in movimento.
Mi piace farlo senza limiti, senza che nessuno mi dica “questo si fa così”.
Io capisco chi insegna in maniera formale ma preferisco dare maggiore libertà ai miei allievi.
Le persone cercano nuove religioni, nuove arti, stanno cercando libertà.
Tutto quello che arriva dalle tradizioni e che è strutturato deve essere interiorizzato affinchè non ci sia più bisogno di una struttura.
Non devi essere separato dalla musica e dal ballo perchè sono già dentro di te.
Arriva quel punto in cui le linee si cancellano e senti di poter fare liberamente tutto ciò che vuoi in modo sofisticato.
I tuoi movimenti sono formati ed hanno un loro peso specifico.
In pratica si può dire che tu ed i tuoi ballerini siete liberi di esprimervi in modo diverso ogni volta che vi esibite?
Sì.
Ci sono delle basi da rispettare ma a me piacciono le diverse personalità dei ballerini.
Dicono che i coreografi hanno fortuna se riescono ad ottenere dai propri ballerini il 75% di quello che hanno nella loro mente.
Perchè normalmente i ballerini vengono e apprendono quello che gli stai insegnando adattandolo al proprio corpo con un risultato diverso da quello che tu avevi in mente e a volte il risultato è molto bello.
Ci alleniamo molto ma alla fine ognuno di loro ha un proprio stile e questo mi piace molto, perchè è uno scambio aperto.
Non è che tutti siamo legati ad una struttura, ma è una sorta di improvvisazione coordinata.
Quando faccio una coreografia cerco sempre di farla in modo semplice, cosicchè anche se siamo in una strada questa può venire bene.
Però guarda caso tutti riescono a fare la coreografia in modo omogeneo ma con il proprio stile.
Ognuno ha un proprio colore e questo piace molto agli spettatori che cercano i diversi movimenti dei ballerini e se ne innamorano.
Nel ballet invece ci sono alcuni ballerini che con il proprio carisma e la propria energia, riescono a trasformare la coreografia in modo da stupire lo stesso coreografo.
Io ti lancio un’idea e tu me la restituisci modificata con un tuo stile, creando di fatto qualcosa di diverso e questo aspetto mi incanta.
Mio padre litigava spesso con me perchè lui studiava arti marziali cinesi ed io giapponesi e mi diceva che i cinesi insegnano la persona e non la tecnica, mentre i giapponesi sono molto legati alla tecnica.
Ed io me la prendevo…
Però è così. Ognuno ha un proprio modo di interpretare le cose ed io devo cercare di correggerli in maniera specifica perchè ognuno ha le proprie caratteristiche.
Con il tempo si imparano tutte queste cose e diventa un piacere lavorare con loro e vedere quel che possono darmi delle coreografie che gli sto spiegando.
Che consiglio dai ai ballerini spagnoli affinchè possano avvicinarsi a questo nuovo modo di interpretare il ballo?
Intanto la musica salsa è diventata popolare al grande pubblico ed i musicisti che dovevano lavorare e guadagnare soldi, dovevano conformarsi alla richiesta del pubblico e fu così che iniziarono a produrre dischi di sola salsa.
Però prima, negli anni 60/70 la musica era molto più varia, c’era musica lenta, boleros, bomba, plena, c’era molta varietà.
Adesso registrano dischi con diversi stili di salsa ma sempre e solo salsa.
Ci sono molti gruppi che producono dischi di salsa perchè sanno che venderanno ma non perchè era quel che avrebbero voluto fare.
Insomma c’è molta musica oggi che mettiamo da parte perchè non è salsa (ndr.si riferisce agli altri ritmi) e anche perchè abbiamo paura di applicare quello che sappiamo sulla salsa e della nostra formazione come ballerini a questi ritmi.
Dobbiamo iniziare a lavorare su questi ritmi senza paura, cercando di riempire
i tempi vuoti come un pittore riempie gli spazi bianchi della sua tela.
La mia idea è quella di utilizzare vari tipi di musica.
Ad esempio quando ascolto un’intro che mi piace la metto fra le due canzoni e tutto questo mi permette di creare un’atmosfera.
Non è così difficile, basta che l’impatto non sia troppo forte, pieno di informazioni (ndr.la tecnica della danza) che potrebbero non essere comprese dalle persone che non ballano.
Per fare questo alterno parti forti ad altre più delicate, con transizioni e uscite dal palco, in modo da mantenere viva l’attenzione del pubblico.
Puoi creare delle storie ma non mi riferisco ad una storia letterale con un inizio, uno svolgimento e una fine, quanto a un modo di vivere una storia fatta di emozioni, di movimenti, come in un sogno.
E’ un’esperienza che non ha niente a che vedere con la vita normale, è come entrare dentro a un sogno.
Non avevo più bisogno di fare i Congressi per essere un ballerino di salsa o un ballerino latino.
Volevo dimostrare che c’è un altro modo per essere artisti e che c’è un altro modo per esprimersi e per insegnare alla gente cos’è il ballo, perchè il ballo dei congressi ha già un suo ruolo.
Il mio problema è stato principalmente quello di mantenere viva l’attenzione del pubblico per molto tempo, senza avere musicisti e cantanti che potessero coinvolgerli maggiormente.
Tutto questo mi è costato molti anni di lavoro per trovare il giusto formato, anche se sono sempre stato sicuro di riuscire a farcela.
Puoi dirci quando è nata la tua passione per la danza afro contemporanea?
Mi ricordo che mi avevi parlato di una ballerina haitiana, Katherine Dunham che è stata la più importante ballerina di danza afro contemporanea.
Puoi parlarci dell’influenza che ha avuto per te questa maestra?
Lei ebbe l’opportunità di studiare le radici del ballo africano grazie ad un finanziamento governativo.
Essendo afro-americana desiderava che la sua compagnia di ballo, formata completamente da afro-americani, potesse avere un’impronta legata alle proprie origini africane che gli permettesse di differenziarsi dalle altre compagnie di ballo formate da bianchi americani.
Così studiò per un anno insieme agli africani, vivendo a stretto contatto e apprendendo il loro modo di ballare.
Quando tornò negli Stati Uniti insegnò ai suoi ballerini i movimenti afro e la tecnica per muoversi come loro.
In questo modo a New York si iniziarono a vedere spettacoli di ballet afro americano, che andavano alla ricerca delle radici afro nel rispetto della tradizione classica del ballo.
Questa cosa mi ha fatto riflettere, perchè io ho seguito un percorso diverso, iniziando a studiare le radici per poi appronfondire le tecniche sofisticate per insegnare qualcosa di unico, però di alto livello e non di semplice ballo da sala.
Si tratta di un sistema d’insegnamento che permette agli allievi di raggiungere livelli molto alti che non potrebbero acquisire senza questi esercizi. E’ una mentalità che ho appreso dal karate, quella di esercitarsi quotidianamente e che mi permette di sviluppare tutte le parti del corpo, ad esempio come faceva Papito Jala Jala quando muoveva le gambe.
Dopo aver lasciato il karate, che per me rappresentava una religione, mi sentivo male e per questo motivo ho cercato di mantenere la stessa mentalità al fine di avere il medesimo risultato anche nel ballo.
Grazie a lei (ndr Katherine Dunham) che ha sviluppato tutte queste tecniche legate al ballo afro americano, io ho potuto fare lo stesso con i ballerini di New York che sono sempre alla ricerca di nuove influenze che gli permettano di esprimersi in modo personale.
I tuoi ballerini hanno qualche soprannome particolare?
Certo, oguno di loro ne ha uno.
Aisha è la China, Lori la chiamo Perez, Mary è Blackett.
Ci piace scherzare fra di noi con i nomignoli.
Tu ne hai uno?
Si, mi chiamano Frank Astaire.
Quando sei nato?
Il 25 Settembre del 1975
Dove sei nato?
Queen’s, New York.
Dove vivi?
Sempre lì.
Una canzone preferita?
Mi desengaño di Roberto Roena
Gruppo preferito?
Il Sexteto di Joe Cuba.
Un personaggio?
Ce ne sono tanti…posso dire Jimi Hendrix.
Un hobby?
Mi piace disegnare pupazzetti e disegni per interni (arredamenti).
Un libro?
La tua mente nel ballo (Your mind on dance).
Un posto preferito nel mondo?
Israele.
Un sogno?
Andare in Egitto.
Domanda/considerazione:
Del tuo spettacolo mi hanno impressionato due cose: la prima è che sei stato capace di avvicinare la figura del ballerino allo spettatore.
Perchè tutti noi abbiamo un falso concetto di quello che è un ballerino, che viene visto nello stereotipo dell’inavvicinabile.
Invece tu sei riuscito a rendere possibile che ogni persona potesse identificarsi con ognuno dei ballerini.
A me questa cosa è piaciuta molto, in particolare mi è piaciuto quando hai presentato ognuno di loro e si è visto che il pubblico era molto coinvolto.
E’ un po’ come se ognuno di noi potesse salire su quel palco e per questo motivo ti voglio ringraziare.
I saluti di Frankie Martinez a Lasalsavive.org